Angelo grigio
racconto di Flavia Ingrosso
illustrazione di Simona Binni
Era l’alba. Quella mattina Virginia si era svegliata presto: un’inquietudine inusuale le incombeva sul petto. Si era alzata dal letto, aveva indossato la vestaglia e, nel caldo della camera al primo piano di una villa sontuosa, rifletteva, seduta sulla poltrona a dondolo accanto alla portafinestra. Il sole aveva iniziato a tinteggiare di rosa il cielo e il giardino, oltre al quale l’orizzonte spaziava sul mare verso l’infinito.
«Chissà se c’è una fine?» si chiedeva. A ventisette anni non le mancava nulla: viveva in una storica dimora fuori città con genitori amorevoli e due sorelle affettuose, aveva un fidanzato adorato, amici fidati e un lavoro stimolante seppur non necessario. Un’esistenza perfetta: lo riconosceva e ne era grata.
Tuttavia era triste, tanto. Eppure non riusciva a identificare la natura del suo malessere, ulteriormente alimentato dal senso di colpa di non sentirsi felice senza un apparente motivo.
Rimuginava su questo, quando all’improvviso percepì una presenza alle sue spalle, si voltò e vide una bambina dal viso angelico, con occhi grigi e malinconici, i capelli color cenere e un vestitino di cenci impolverati che a malapena le coprivano il corpicino smunto. Difficile darle un’età, circa cinque anni, ma non ne era poi così sicura. Sorrideva la bambina, ma come se una luce dentro le si fosse spenta o, peggio ancora, non si fosse mai accesa.
Ma era bella, bella davvero, e dolce: Virginia non aveva mai visto una creatura più adorabile di colei che in quel momento era in piedi lì di fronte a lei.
Forse per questo, dopo la prima reazione di meraviglia, non fu turbata dalla sua presenza; e non ebbe nemmeno il tempo di chiederle chi fosse e da dove arrivasse, poiché la piccola iniziò a parlare.
‒ Se potessi, ti regalerei un sogno.
‒ Vorrei delle ali, ‒ rispose Virginia, come se quel dialogo fosse del tutto naturale e continuasse a formulare ad alta voce i pensieri che poco prima le frullavano in testa.
‒ Per fare cosa?
‒ Per volare via e andare in un luogo molto lontano, ‒ e guardò sconsolata fuori dalla finestra, verso un faro che dominava senza scomporsi i flutti vorticosi della distesa marina.
‒ Lasceresti tutto quel che possiedi qui?
Virginia ci pensò: ‒ Non riuscirei, no.
‒ Allora porteresti con te tutti e tutto ciò che ti è più caro ‒. Intanto la bimba si era seduta sul letto, le gambe penzoloni, i piedi dentro le scarpette sciupate, le mani incrociate in grembo.
‒ No, come potrei? E cosa avrei da offrir loro di meglio?
‒ E a te cosa potrebbe offrire un altro luogo?
‒ Non so, ‒ ammise la giovane donna. ‒ Forse starei meglio però.
‒ Cosa ti manca qui?
Virginia guardava stupita la bimba che con abile destrezza incalzava con le domande, talmente puntuali da costringerla a scrutarsi profondamente nell’intimo.
‒ Mi manco io, ‒ si sorprese a riconoscere.
‒ Cosa ti impedisce di cercarti?
‒ Niente e nessuno.
‒ Se non sai chi sei, cosa ti dà la certezza che altrove ti troveresti?
‒ Certezza? Nessuna. Ma almeno ci proverei.
‒ Ma sapresti chi cercare?
‒ No.
‒ Hai speranze di poterlo scoprire da un’altra parte?
‒ Poche direi.
‒ E, malgrado ciò, prenderesti il volo e abbandoneresti i tuoi punti di riferimento.
Era incredibile come quell’angelo grigio riuscisse con serafica dolcezza a farla riflettere su se stessa e i suoi sentimenti rimasti fino ad allora inesplorati. Come se la bimba avesse aperto una porta al di là della quale ci fosse un’altra Virginia da conoscere e scoprire.
‒ Non ne sono tanto sicura.
‒ Qualcuno ti ha tolto la sicurezza?
‒ No, al contrario. Solo qui mi sento realmente protetta. Ho tutto: famiglia, fidanzato, amici, casa, soldi, lavoro. Ma….
‒ Ma…?
‒ … ma non ci sono io. Capisci quel che intendo? Ma forse sei troppo piccola.
La bimba le rispose con un sorriso amaro.
‒ Ho il cervello in naftalina, bambina cara, ‒ aggiunse rassegnata.
‒ Perché non l’hai mai usato?
‒ Per timore di sbagliare, di ferire chi con tanto amore si è sempre preso cura di me.
‒ Ti hanno mai chiesto la tua opinione?
‒ Si, certo. Sempre.
‒ E tu l’hai data?
‒ Mi sta sempre bene quel che preferiscono gli altri.
‒ Ed è vero?
Ci fu un lungo silenzio, dopodiché Virginia si alzò di scatto e rispose con la massima onestà: ‒ No! ‒ Un’altra pausa per riprendere il respiro e, camminando su e giù per la stanza, confessò: ‒ Ho voglia di camminare da sola, di inciampare, cadere e rialzarmi da sola! Ho bisogno di pensare con la mia testa, magari sbagliare e poi ricredermi, ma lo voglio fare io, senza che qualcuno mi dica sempre cosa è bene e cosa è male.
‒ Perché non glielo hai mai detto?
Virginia lanciò uno sguardo stupefatto a quel piccolo scricciolo che la stava mettendo in estremo imbarazzo: le domande erano dirette e pretendevano risposte precise, che non aveva mai azzardato dare a se stessa prima d’allora. Si riavvicinò poi alla finestra e dando le spalle alla piccola rispose sconsolata: ‒ Per non deluderli.
‒ Te lo hanno detto loro che li deluderesti?
‒ Assolutamente no! ‒ esclamò con convinzione.
‒ Sono sempre soddisfatti dopo le tue risposte?
‒ Non lo so. Non ne sono sicura, ‒ fu costretta a realizzare. Ma non sapeva perché non se lo fosse mai domandata.
‒ E ora sei stanca.
‒ Tanto, tanto davvero, ‒ chiuse gli occhi e con la mano si accarezzò la fronte.
Passarono pochi minuti in cui si udiva solo il fruscio delle fronde al passaggio del vento e un lieve ondeggiare del mare.
‒ Cosa sogni?
‒ Un’altra vita.
‒ Altri genitori, altri amici, altro fidanzato, altro lavoro, altri interessi, alle strade su cui passeggiare, altro cielo sotto cui vivere, altra aria da respirare…?
‒ No, no, no! ‒ la interruppe Virginia, che si voltò e le rispose guardandola intensamente negli occhi: ‒ Un’altra me desidero!
A questo punto la bimba sorrise soddisfatta e disse: ‒ Va bene, allora adesso posso accontentarti.
‒ Mi regalerai un paio di ali? ‒ ironizzò la ragazza, senza nascondere un velo di speranza.
La piccola estrasse una scatolina dalla tasca sfilacciata e gliela porse: ‒ Questo è il mio dono per te.
Virginia, avvicinandosi, domandò: ‒ Cos’è?
‒ Ti ho detto che ti avrei accontentata: apri il pacchetto ‒ la esortò ansiosa.
‒ È troppo piccolo per contenere delle ali. Mi stai forse prendendo in giro?
‒ Non potrei mai, prenderei in giro soprattutto me stessa. Dài, apri.
Virginia seguì il consiglio e con un accenno di sbigottimento chiese: ‒ Una chiave?
‒ Sì, una chiave.
‒ A cosa mi serve? ‒ per un attimo pensò a come Alice dovesse essersi sentita, una volta catapultata nel Paese delle Meraviglie! A lei pareva che il pavimento le mancasse sotto i piedi e non ci fossero più pareti a proteggerla, come se nulla oramai girasse nel verso consueto.
‒ Ad aprire, ovvio! ‒ rispose simpatica e impertinente la bambina, saltando con un improvviso balzo giù dal letto e accostandosi alla ragazza.
‒ Sì, aprire, certo. Ma cosa?
‒ Il lucchetto del tuo cuore, costretto in catene per tutti questi anni e… potrai rendermi finalmente la mia libertà!
‒ La tua libertà? Ma tu chi sei? Cosa hai a che fare con me?
‒ Io sono la parte di te che ti manca!
‒ Stai scherzando! Non burlarti di me!
‒ Non vorrei mai. Mettimi alla prova!
‒ Come? ‒ in fondo Virginia ci sperava davvero che quell’angelo grigio fosse lì per aiutarla.
‒ Appoggia la chiave sul petto in corrispondenza del cuore. Chiudi gli occhi e pensa intensamente di voler aprire il lucchetto ‒ ordinò delicatamente la bimba.
‒ Mi sento un po’ stupida ‒ confessò Virginia.
‒ Ma non lo sei. Fa’ come ti dico, per favore! ‒ Intanto iniziarono a scendere timide lacrime dai suoi occhi spenti.
‒ Va bene, va bene. Ma perché piangi?
‒ Sono stanca di stare in prigione. Ho bisogno di respirare, di crescere… di vivere!
‒ Non capisco.
‒ Capirai.
‒ Mi fido. Vado…
‒ Vai, ti prego.
‒ … fatto. Credo di aver aperto.
‒ Ne sei sicura? ‒ volle accertarsi la bimba che pendeva dalle labbra di Virginia.
… Si sentì un refolo leggero e la bimba scomparve, benché nell’aria riecheggiasse ancora la sua voce: ‒ Va bene. Ora puoi aprire gli occhi.
Virginia obbedì e con un pizzico di delusione si lamentò: ‒ Non è cambiato niente, io sono sempre qui… e tu dove ti sei nascosta?
‒ Finalmente mi hai liberata, grazie, ‒ si rallegrò il piccolo angelo.
‒ Ma dove sei? Ti ascolto, ma non ti vedo ‒ iniziava a stizzirsi Virginia.
‒ Ti garantisco che fra un po’ mi vedrai. Vai e guardati allo specchio.
‒ Cosa?
‒ Va’, ti dico! ‒ il tono della sua voce da dimesso divenne squillante, per quanto sempre gentile e delicato.
Virginia, pur perplessa, obbedì ancora una volta e andò a specchiarsi: oramai aveva iniziato a darle fiducia, non aveva nulla da perdere ed era curiosa di capire come sarebbe andata a finire.
Guardò la sua immagine riflessa e si lasciò andare a una meravigliata commozione: ‒ Ma… come sono bella! Non lo sono mai stata in questo modo! Come se ci fosse una luce nuova in me!
‒ Quella luce sono io, mia cara: la parte di te che ti mancava.
‒ Tu… io… ora io e te siamo la stessa persona?
‒ Lo siamo sempre state! Ma tu mi avevi relegato nel ripostiglio più recondito del tuo cuore.
‒ Come ho potuto farti questo?
‒ Non lo so, ma ora so come potrai rendermi felice.
‒ Come?
‒ Vola, vola in alto!… ora che ti sei ritrovata, puoi farlo!
‒ Ma non mi hai regalato le ali!
‒ Certo che l’ ho fatto!
Virginia si guardò dietro la schiena, ma non vide nessun arto pennuto, tuttavia ascoltò l’invito della voce amica: ‒ Vai, fidati di me!
Si accostò alla portafinestra, l’aprì e uscì in terrazza. Fissò affascinata il mare, ebbe poi l’improvviso impulso a curiosare all’interno di quel faro che sempre da lontano lo ammirava resistere ai capricci dell’acqua, che ora lo accarezzava dolcemente ora lo schiaffeggiava con furore, e sorrise.
Salì poi sul passamano della ringhiera e… volò via!
… Per poi ritornare, e poi continuare a volare e ritornare di nuovo, per tante volte, ancora più affezionata al suo mondo quotidiano: aveva oramai scoperto quanto fosse naturale amare la propria vita, avendo la libertà di poterla scegliere!