La bambina della pioggia
racconto e illustrazione di Anna Paola Bosi
Agata era il suo vero nome. Si sentiva diversa dai suoi coetanei.
A settembre si presentava a scuola con il grembiule bianco immacolato, il fiocco colorato e il vezzo del nastro per capelli dello stesso raso luccicante. Non c’erano molti vezzi in quel tempo. La guerra li aveva divorati tutti. E si era portata via anche gli amici rimasti indietro nella corsa verso il rifugio.
Lei amava letteralmente la sua Maestra, che le sembrava fatta della sua stessa sostanza mentre gli altri avevano un profumo inodore e incolore. La Maestra certi giorni sapeva di minestrone cotto per due ore, altri di castagne ‘bruciate’ e altri ancora di corsa sudata contro il tempo. Era una donna grande e imponente, con una crocchia cresputa e grigia e una postura militaresca. Nel timore che aveva di lei, Agata provava anche rispetto e ammirazione. La Maestra aveva vero sangue nelle vene e sapeva parlare con tono calmo, trasmettendo fiducia e desiderio di imparare.
Nel quartiere dei poveri dove abitava Agata, nessuno le prestava molta attenzione. Tornava da scuola con l’unico quaderno sotto il braccio e, saltellando dal marciapiede alla strada, spesso inciampava sbucciandosi un ginocchio. Quelle erano le volte in cui sentiva la mancanza di sua mamma e ormai l’immagine del suo ricordo era quasi del tutto sgretolata. Quando pensava a quell’immagine, vedeva una donna scolpita nella pomice. L’erosione del tempo andava veloce e i tratti sparivano lasciando così un’effigie appena accennata di donna.
Quando il vento portava nel quartiere un foglio di giornale strapazzato, molti si avvicinavano in silenzio e Agata leggeva i trafiletti. Gli abitanti del quartiere si accosciavano in cerchio e qualcuno si sedeva sulle rovine delle case bombardate. Calava il silenzio e Agata sentiva la sua voce leggere senza incertezze.
Finito il rituale, i poveri abitanti del quartiere si allontanavano senza dire nulla. Ognuno tornava alla sua occupazione che era cucire a macchina le divise dei soldati. Per fare quel lavoro, pedalavano in basso su una pedana che attraverso un nastrino di tela azionava una ruota sul lato della macchina. Ogni volta che iniziavano quel movimento, i lavoranti dovevano vincere l’attrito ma poi la ruota girava vorticosamente facendo andare su e giù la spoletta col filo grigio delle uniformi. Nel laboratorio c’era un profumo inodore e incolore schiacciato dal ronzio incombente delle centinaia di macchine da cucire nere con le scritte oro.
Da anni ormai quella era la sua ninna nanna e la sua sveglia, la sua musica e il suo rumore, il suo passatempo e la sua noia mortale. Agata stava nel suo posto e lo ascoltava, e mentre lo ascoltava, copiava sul quaderno le frasi dettate dalla Maestra: In autunno cadono le foglie, La domenica non si va a scuola. Ma cos’era poi questo autunno? E cosa significava domenica? Si doveva far finta di saperlo, anche se ormai il tempo scorreva scandito soltanto dal ronzio delle macchine da cucire e dalla campanella della scuola.
Non c’erano domeniche, non c’erano stagioni, non c’erano vacanze.
Nonostante fosse strana, nessuno si chiedeva il perché della sua esistenza, di chi fosse figlia o sorella e il motivo del suo andare a scuola ogni giorno che dio metteva in terra. Che cosa aveva di così interessante la scuola? Cucire era l’unica cosa che i poveri dovevano davvero imparare. Non richiedeva tanto apprendistato e invece lei in quegli anni aveva imparato a leggere perfino il giornale. Tutte le volte che il rituale della lettura in cerchio terminava, ognuno tornava alla sua postazione e anche Agata si rinchiudeva nel suo posto in attesa che accadesse qualcosa. E un giorno qualcosa accadde.
Qualche tempo prima, a scuola la Maestra aveva dettato la frase Quando piove mi metto gli stivali di gomma e, mentre i suoi compagni inodori e insapori la scrivevano pedissequamente, Agata alzò lo sguardo interrogativo e la Maestra le fece un cenno con la bocca, come quando si dice la zeta da sola senza vocali, si posò un dito sulle labbra e con gli occhi indicò il cortile della scuola che si vedeva dalla finestra. Una volta in cortile a prendere aria, la Maestra e Agata si trovarono a fianco sotto un albero di magnolie imbalsamato dal tempo e dalla guerra. Agata le sentì sussurrare queste parole:
«La pioggia è quella cosa che accade quando dal cielo cadono gocce d’acqua grandi, piccole o minuscole; il cielo è grigio e nuvoloso e si sparge nell’aria un odore di terra bagnata e vermi. Nelle strade e nei sentieri si formano dei rigagnoli e delle pozze. Tutto cambia aspetto. Alcuni pensano che poco prima della pioggia la natura si zittisca e si possa ascoltare il silenzio per una frazione di secondo.
Quando ero piccola, se d’estate pioveva, io di soppiatto uscivo di casa e correvo finché potevo sotto la pioggia. Smettevo di correre quando l’acqua mi era entrata dentro le orecchie e dentro le scarpe. Mia mamma mi vedeva tornare e non mi sgridava. Mi guardava con aria dolce mentre mi passava un morbido asciugamano giallo e verde e mi diceva: – Sei la mia bambina della pioggia».
L’anziana donna aggiunse che non era più riuscita a cancellare dalla mente l’immagine e il profumo di quel ricordo.
Quel pomeriggio, Agata stava leggendo un foglio strapazzato di giornale sul balconcino quando avvertì qualcosa di strano. Tutto si fermò per un attimo e, prima che se ne rendesse conto, iniziarono a cadere delle gocce d’acqua dall’alto verso il basso. Le vedeva prima sopra la sua testa e poi, con lunghe scie bianche splendenti, le vedeva arrivare fino in terra, fino al davanzale del balconcino, fino al suo naso, fino ai suoi capelli. Nella sua mente si ripeteva una parola sentita una sola volta prima: pioggia.
Nella storia che spesso i vecchi narravano, sembra che la bambina della pioggia un giorno si fosse allontanata da casa nel suo abitino bianco da estate e che fosse scesa giù per le scale balzellando, mentre la mamma le gridava: «Ma dove vai che piove?»
«Vado a comprare il pane!», aveva gridato lei. Era giunta nel cortile interno del casone e aveva iniziato a correre felice, con dentro il suo corpo l’odore forte della terra bagnata. Aveva corso e corso senza mai fermarsi, così tanto che era arrivata al parco sul fiume, era entrata nel viale centrale, aveva corso ancora. Aveva sbattuto i piedi nelle pozzanghere, strusciato sui cespugli ormai infradiciati, con i capelli che le si attaccavano al viso e aveva acqua nelle orecchie e nelle scarpe. In giro non c’era nessuno. Aveva corso ancora rallentando fino al ponte sul fiume in secca. Si era affacciata incantata, guardando i vuoti del fiume che piano piano si riempivano e rinascevano. Ferma sul ponte, si era dimenticata del tempo che passava, del pane, della mamma a casa ad aspettarla, dell’abitino bianco. L’avevano trovata la sera tardi i poliziotti e l’avevano riportata a casa dalla mamma che aveva pianto dalla felicità dopo la disperazione di tutte quelle ore trascorse nel terrore di averla persa. Questa era la storia che spesso si narrava nel quartiere sulla Maestra, di quando era bambina, bambina della pioggia alla scoperta del mondo.
Agata sentì la prima goccia della sua vita su una mano e capì che era arrivato il momento di fare qualcosa. Si mise a correre sotto la pioggia e si diresse verso la scuola, non sapeva bene il motivo. Corse concentrandosi su quelle punzecchiature fresche di gocce sulla pelle e non pensando realmente a cosa stesse facendo.
Giunse alla scuola ma era chiusa. Si chiedeva dove fosse la grande Maestra e cosa facesse nel tempo libero, dove andasse a rifugiarsi e quale fosse il suo posto. Si ricordò che una volta le era sfuggito un accenno al fatto che aveva lasciato il suo quaderno delle frasi nei sotterranei della scuola. Dove potevano essere? Dov’era l’entrata? Cosa doveva cercare? Una porta, una botola, un passaggio segreto?
Girò intorno al palazzo della scuola cercando qualche indizio e trovò una finestra per entrare in una delle aule abbandonate. L’unica aula che veniva usata era quella di classe sua, grazie alla grande Maestra che ogni giorno si presentava per fare lezione a lei e ai suoi compagni inodori e incolori.
Non ne era sicura ma aveva l’intima speranza e convinzione di essere apprezzata per la sua intelligenza e per la capacità di imparare, di essere precisa e di dare e ricevere amore. Si aspettava con animo fiducioso che le venisse riconosciuta l’umiltà e la dedizione che impiegava nell’intento di raggiungere i suoi obiettivi, ambiziosa e volenterosa, incurante dei giudizi degli altri, diversa da tutti, così ricca di profumi e sapori rispetto ai compagni di classe. La Maestra era l’unica persona che conosceva che potesse ricevere e dare amore. Era un amore non infantile, non materno, non epidermico. Era un amore fatto di cultura e intelletto, ma era pur sempre amore.
Dove era la Maestra in quel momento? Non usciva almeno per un minuto a guardare la pioggia? Certo non poteva correre per strada, visto che adesso era così grande e corpulenta … Spinta da queste e mille altre domande, Agata entrò nella scuola buia e vuota. Si mise a camminare tra i fogli sparsi dei quaderni, fra i pezzi di intonaco caduti dal muro, fra le macinature delle matite e i fascicoli ingialliti di tanto tempo fa. Cercava un’entrata, un varco che la portasse nel sotterraneo ed era disposta a tutto pur di raggiungere la Maestra.
Immersa in un odore di chiuso e muffa di libri, vide un passaggio stretto e poco illuminato. Le mani le sudavano per l’emozione e l’entusiasmo, ma per paura no. L’accompagnava il ricordo sgretolato ed eroso della mamma, la figura di pietra pomice divenuta senza rughe e senza espressioni. Le sembrava di sentire i sospiri delle anime incolori, anime che non vorrebbero essere ascoltate.
Entrò così nella rampa di scale che conduceva nel sotterraneo dove vecchi neon illuminavano indecisi gli spazi sconosciuti. Non sapeva dove si trovava ma sapeva dove andare. Nell’incertezza, evocava la guida della donna di pietra pomice. Entrò in una stanza. Non c’erano sbocchi e quindi si sedette su una poltrona da rigattiere, come quelle delle sale d’attesa di un tempo. La donna di pomice era ancor più cancellata ma era sempre lì, non la abbandonava.
Mentre si stava per appisolare, dopo quel lavoro frenetico di ricerca, Agata sentì una mano che le toccava con delicatezza il braccio. Aprì gli occhi. Era una bambina come lei. Una bambina con odore e colore, con sapore e consistenza, con suoni e rumori. E c’era la Maestra che la guardava con dolcezza, pronta ad accoglierla. C’erano ragazze più grandi e anche qualche donna dai capelli bianchi o argentati, a cui gli anni e la guerra avevano tolto la carne.
Le donne si stavano sedendo nella stanza formando un cerchio, guardandosi di tanto in tanto e sorridendosi, alcune si asciugavano i capelli bagnati dalla pioggia, altre chiacchieravano sottovoce. La bambina che l’aveva toccata le chiese se quella fosse la sua prima pioggia. Rispose di sì.
Una donna intonò un canto leggero appena mormorato e le altre seguirono con modi naturali. Cantando si muovevano con lentezza e seguivano la storia delle donne della pioggia, raccontata nella canzone. Si parlava di donne che non sopportavano più la guerra, il grigio, la mancanza di sensazioni e desideravano un mondo dove la vicinanza fosse concessa, dove fosse consentito inventare nuovi modi, dove la terra diventasse odorosa e umida per le gocce di pioggia, dove la conoscenza era saper leggere e scrivere ed anche esplorare il mondo, correre per le scale, inseguire un temporale e dove tutto il sapere veniva usato per fare qualcosa di bene. Quel lungo canto parlava della conoscenza che sta nel prendersi per la mano e sostenersi, sorridersi, piangere insieme. Parlava di donne in viaggio a cercare erbe per curare ferite, raccogliere sassi tondi come la perfezione, danzare sotto la luna piena in onore al femminile. Erano tempi lontanissimi e dimenticati dall’era grigia delle uniformi eppure ancora così vivi nel desiderio di riportarli in vita.
Piano piano anche Agata imparò il ritornello “gocce che formano la speranza, gocce che toccano i nostri cuori”. Il cuore però le si stringeva perché sentiva con immensa nostalgia che la donna di pomice avrebbe proprio apprezzato una cosa così. Ma non c’era e Agata era sola. In quel momento, mentre ricordava la donna di pomice, in verità non aveva il magone forte e opprimente di sempre. Adesso sentiva calore e accoglienza: quel cerchio formatosi spontaneamente, seguendo forme e gesti esistiti da sempre, la conteneva in un tutto in cui ogni parte è essenziale alle altre. Il cerchio divenne un girotondo e si ritrovò a pensare «come vorrei essere anche io una bambina della pioggia».
– Ora lo sei – disse la Maestra.
Grazie per il racconto gentile e coinvolgente, che ha evocato echi e ricordi!
Bellissimo racconto, vero Rosa? Quando mi è stato proposto l’ho subito amato! Sono contenta che ti abbia mosso piacevoli emozioni.