Mentre scrivo non mi sento molto bene, fuori piove e due cani abbaiano rabbiosamente, giornata storta anche per loro probabilmente, succede.
Stanotte, come nelle ultime dieci, non ho riposato: tutte le influenze scansate quest’anno si sono concentrate negli ultimi giorni. Passerà.
Così come passerà la mia amarezza.
Ieri mattina ero debilitata da un dolorosissimo mal di testa e ho ricevuto un messaggio:
‒ Come va?
‒ Non benissimo, ‒ ho risposto, ‒ non ho dormito bene stanotte, sono raffreddata e ho un dolore fortissimo alla testa.
‒ Mi dispiace.
‒ Volevi dirmi qualcosa? ‒ ho chiesto per lo scrupolo di aver bloccato la comunicazione rovesciando sull’altro le mie rogne.
‒ Sì, volevo parlarti di […] ma non voglio importunarti se non stai bene.
‒ Grazie sì, ne parliamo un’altra volta.
‒ Solo che…
E l’interlocutore, incurante del mio malessere, ha iniziato a sciorinarmi una serie di accuse e risentimenti per alcune mie decisioni prese: a quanto pare non si conciliavano con i suoi progetti, che evidentemente non avevano tenuto conto della mia dichiarazione pubblica di mesi fa sulle mie intenzioni, ignorando dunque le mie motivazioni, il mio punto di vista, i miei valori, le mie esigenze… il mio bisogno di stare tranquilla ieri che lottavo contro l’emicrania!
In quel momento esisteva la sua irritazione, unita alla delusione.
Io non c’ero e continuavo a non esistere fino a quando esprimevo posizioni che non rispondevano alle sue aspettative.
L’altra sera ho guardato un film sfizioso, Toc Toc di Vicente Villanueva, e la storia mi ha lasciato una suggestione rassicurante.
La scena è quasi unica, la trama semplice: per un disguido nelle prenotazioni, sei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo (Doc, che raddoppiato dà il titolo originale del film Doc Doc) si incontrano in uno studio medico. Complice un ritardo prolungato dello psichiatra, i sei personaggi sono costretti a interagire tra loro e sin da subito si manifesta in tutti la forma del disturbo di cui sono affetti, una diversa dall’altra. All’inizio questo crea imbarazzo, nonché diffidenza, paura, a volte scherno: ognuno conosce la propria particolarità ma è destabilizzato da quella degli altri e non sa quale approccio adottare. Poi con il passare del tempo scelgono di concedersi reciprocamente il permesso di entrare in confidenza e aprire un canale di comunicazione: le reazioni e i sentimenti prima negativi lasciano dunque spazio alla fiducia, alla condivisione, alla solidarietà e alla comprensione reciproca.
Decidono allora di iniziare un gioco per aiutarsi a vicenda: a turno si affidano al sostegno e all’incitamento del gruppo per controllare ognuno il proprio tic. E accade qualcosa di inaspettato: se è vero che ogni volta la persona oggetto dell’esperimento non riesce a controllare la propria ossessione, è altrettanto vero che tutte le altre, impegnate a prendersi cura dell’altro, hanno spostato la loro attenzione da dentro a fuori di sé e… “magicamente” hanno ignorato le proprie manie e scoprono di poter sopravvivere e anzi di vivere meglio senza assecondarle. Ora, quantomeno, sanno come affrontare il loro disagio.
La vita va troppo veloce e spesso si pensa di doverla rincorrere se non si vuole perdere il treno. Ok, lo comprendo.
Io viaggio a velocità basse, preferisco godermi il viaggio e soprattutto fare in modo che i miei compagni di viaggio restino nella mia vita anche dopo il rientro.
Qualcuno preferisce la meta.
Lo ribadisco: beata diversità!
Tuttavia ho un pensiero: prima di entrare nella vita di una persona chiediamo il permesso, dopo averlo ottenuto impegniamoci a metterci nei panni dell’altro, rallentando se è il caso, senza essere concentrati troppo sui nostri obiettivi, sui nostri valori, sulle nostre esigenze: potrebbe capitare anche a noi che spostare l’interesse verso gli altri ci aiuterà a ridimensionare le nostre ossessioni.