Favola nera e bisestile
racconto di Alessandra Pagani
illustrazione di Francesca Zanotto
C’era una volta una principessa. Era giovane, bella, intelligente ma anche arrogante, dalla lingua tagliente e peccava di orgoglio, pensando di bastare a se stessa.
Una notte d’inverno, mentre dormiva nel suo comodo letto a baldacchino, alcuni vermi, infreddoliti, le entrarono nell’orecchio rintanandosi nei meandri del cervello, senza che lei si accorgesse di nulla. Indossava bei vestiti, la principessa, nel suo castello si servivano ottimi pasti e godeva di molto affetto per scaldarsi il cuore. Nonostante questo, i vermi che si erano insinuati nella sua testa iniziarono a mangiarle il cervello.
Dall’esterno non si notava ma i suoi pensieri diventarono cupi e mortiferi e un giorno, senza accorgersene, la principessa si ritrovò nuda, affamata e sola. Provò a coprirsi con le mani, ma aveva freddo. Trovò uno straccio e se lo buttò addosso, andò di casa in casa e i suoi amici le chiusero le porte, non riconoscendola più in quello stato. Iniziò a mendicare. Mentre sedeva sul marciapiede osservava le scarpe delle persone, non osando guardarle negli occhi, le guance rosse di vergogna. Ogni tanto qualcuno le lanciava una moneta, ma la maggior parte delle sere le passava in fila di fronte alla casa delle dame della carità. Mentre i vermi, indisturbati, continuavano a divorarle il cervello.
Un giorno vide un uomo solo quanto lei, ben vestito, che mangiava qualcosa appena acquistato. La giovane si fece coraggio, si alzò e, sfoderando il suo miglior sorriso, gli parlò. L’uomo, nonostante fosse solitario per natura, appena la vide si innamorò. La portò con sé a casa, le offrì pasti caldi a pranzo e a cena e le regalò bei vestiti. Lei gli sorrideva, con occhi nuvolosi e cupi come il cielo di novembre, e non era mai contenta; mentre l’uomo, perso nel mistero del suo sguardo, desiderava un suo sorriso autentico e la portava a passeggio e nei migliori locali della città. La ragazza, però, continuava ad essere insoddisfata e notava che le coppie, che passeggiavano ridendo e baciandosi, le passavano accanto senza degnarla di uno sguardo.
Quando i vermi le concedevano un po’ di tregua la principessa riacquistava lucidità e, a volte, rifletteva su quanto aveva avuto e quanto aveva perso nella sua vita.
Un giorno decise che si era scaldata, aveva mangiato e dormito a sufficienza ed era perciò abbastanza forte per camminare da sola. Andò via lasciando l’uomo da solo a casa a fissare la sedia che lei aveva lasciato vuota. L’uomo si chiese perché lei non avesse mai sorriso: si diede la colpa e, giudicandosi incapace di amare, rimase solo per sempre.
L’inverno non voleva proprio finire: il vento gelido le sferzava il viso e, dopo aver camminato per un po’, la ragazza, tutt’altro che coraggiosa, alla vista del buio si spaventò. Andò in una piazza e si sedette su una panchina, piangendo e pensando che qualcosa sarebbe successo. Le si avvicinò un uomo: le disse che voleva offrirle la cena, lei si alzò, con i morsi della fame, e accettò l’invito. L’uomo iniziò a camminare per la città, chiacchierando, lei si sentiva bene: per qualcuno era importante. L’uomo attraversò una strada e si diresse all’interno di un vicolo: lei lo seguì fiduciosa.
Quando entrarono nella viuzza stretta, stava calando la notte. Lui la scaraventò contro un muro. Lei immobile per la paura, come un animale braccato, pensò che non aveva scampo perché era più debole fisicamente. L’uomo la prese per i capelli e le sbatté la testa contro il muro, più e più volte, finché non la vide sanguinare: allora la incatenò.
Stordita dal dolore, con il sangue che le colava in faccia, camminava dietro all’uomo, lo sguardo sulle pietre del selciato. Un pensiero le attraversò il cervello: mendicare, in fondo, non era male, ce la poteva fare. Si fermò.
L’uomo tirò la catena. Lei gli sorrise, gli occhi scintillanti dietro al viso tumefatto.
– Voglio venire con te, non serve che tu mi strattoni, te lo giuro, desidero camminare al tuo fianco, non dietro di te. Liberami e te lo dimostrerò.
L’uomo non si fidava ma la principessa era così bella, sottomessa e dolce che lo convinse.
Quando l’ebbe liberata lei gli camminò a fianco, come promesso, chiacchierando normalmente. Camminarono fino a un ponte, il fiume gelido e grigio scorreva impetuoso, sotto le nuvole nere, gonfie di pioggia. C’era sempre brutto tempo.
– Mio caro, aspetta, voglio osservare il fiume in inverno, – mentre l’uomo si fermava, lei si buttò di sotto, un volo di trenta metri, così improvviso che lui non poté fermarla. L’acqua la colpì come una lama nel petto, mozzandole il respiro. Alzò gli occhi: l’uomo urlava e agitava un pugno nell’aria.
I vermi, scossi dall’impatto con l’acqua fredda, erano scivolati fuori dal cervello della principessa attraverso l’orecchio ed erano morti, congelati. Lei, ignara della loro esistenza e del loro destino, raggiunse la riva e si rifugiò all’interno di un canneto.
Sola, in breve tempo imparò ad accendere il fuoco, a procurarsi il cibo, a stare nascosta. La solitudine le pesava e la schiacciava e pungeva come una vecchia coperta di lana militare.
Un giorno per reagire al silenzio e alla paura iniziò a parlare al fiume.
– Fiume, sai cosa mi è successo? Avevo tutto e l’ho gettato via: sono stata stupida e non merito niente!
Si lamentava lei, ma era diventata una donna solare e ogni tanto scherzava e rideva e il fiume un giorno le rispose.
– Fiume, tu parli!
– No, il fiume non parla.
– Ma io ti sento! Mi parli –. La principessa non era sicura ma si sentiva così sola e spaventata e insistette finché scoprì che un pesce, avvicinatosi alla riva ascoltandola parlare, cantare, piangere e lamentarsi, si era fermato e, impietosito, le aveva risposto fingendosi il fiume.
Il pesce era argentato e, quando la luna saliva alta nel cielo, le squame brillavano di tanti colori cangianti.
– Sei bello pesce, – gli diceva la principessa. – Quando non c’è nessun altro e solo io e la luna ti guardiamo, tu splendi come le stelle del cielo e da te escono tutti i colori dell’arcobaleno.
Il pesce si schermiva e non credeva ma lei insisteva.
– Sei bello, pesce.
Parlarono molto e lui raccontò come si viveva da pesci nel fiume: le albe viste sotto il pelo dell’acqua, i tramonti ammirati dalle profondità dei fondali, raccontò delle trote e dei lucci, finché un giorno le disse: – Voglio farti vedere i fondali –. Lei gli tese la mano, lui una pinna e, a braccetto, ridendo, attraversarono il fiume.
Quando la ragazza riemerse e tornò sulla riva, ricominciarono a parlarsi, pianificando nuove escursioni e scorribande sul letto del fiume. Erano simili, eppure così diversi.
La principessa un giorno rifletté: – Io sono una donna, voglio vivere nel mondo. Lui è un pesce, vive nel fiume.
Provò a scacciare via il pensiero ma la sua mente continuava ad andare alla sua esistenza prima dell’inverno, quando aveva una casa piena di luci e di affetti invisibili ai suoi occhi e al suo cuore. Ormai era passato molto tempo e lei non sapeva più dire se aveva vissuto davvero quella vita o se era solo frutto di un sogno: in fondo, abitare sulla sponda di un fiume non era poi così male. Aveva cibo, riparo e la compagnia del pesce.
Una notte, cullata dalla luna piena, sognò un bambino di due anni, biondo, con gli occhi azzurri, che sorrideva e la chiamava mamma. Lei si svegliò all’improvviso. Si guardò le mani, che così spesso sognava di trasformare in branchie. Specchiò la sua immagine nel fiume: tante volte aveva desiderato diventare pesce e ringraziò Dio di non averla accontentata: era una donna, aveva già la sua fortuna, voleva provare ad avere di nuovo una casa, degli amici, pasti caldi e una famiglia e dei bambini da accudire.
Lo spiegò al pesce: lui non capì.
La ragazza versò una lacrima, enorme, argentata, con dentro mille colori. Il pesce non la vide, perché era scappato sul fondo del fiume. Versò un’altra lacrima: ancora argentata, ancora dai mille colori.
La principessa capì che avrebbe portato il pesce e tutto quello che si erano donati per sempre con sé.
Sorrise e iniziò a camminare, senza voltarsi indietro.
La sponda del fiume era molto lunga e lei non conosceva la strada.