Ho raggiunto lo scopo della mia vita.
Finalmente saprò se ho una vita interiore.
In famiglia si ricorda sovente la massima di un mio zio acquisito: “Esistono due tipi di operazioni chirurgiche: quella sul mio e quella su quello degli altri. E son diverse”.
Semplice ed efficace, non fa una grinza.
Con la stessa naturalezza zio Giovanni avrebbe potuto dire che esistono due tipi di solitudine: una scelta e l’altra subita; e quest’ultima, si sa, fa male all’umore e al cuore, ferisce anche in compagnia di altra gente, pur affezionata, ed è la solitudine dell’anima, incompresa.
Però.
Ho spesso il sospetto che si demonizzi anche la solitudine del corpo, e questa temo sia sofferenza inutile e occasione sprecata perché, se guardata da un’altra prospettiva e vissuta con intenti consapevoli, non avrebbe niente di negativo in sé.
Anzi.
Incredibile quanto l’uomo riesca a monopolizzare l’attenzione dell’uomo. La presenza dei nostri simili sottrae interesse al resto del mondo. La solitudine è la conquista che fa ritrovare il piacere delle cose … Essere soli significa sentire il silenzio.
E spesso il silenzio dice molto più di qualsiasi parola, a volerlo ascoltare.
Io sono un animale sociale. Eppure trascorro molto tempo da sola, ma non mi sento sola: oggi più che in passato so di avere un mondo dentro, che ogni giorno esploro con curiosità, e un mondo fuori che mi allieta assai per la sua meraviglia e non mi è affatto nemico, tutt’altro.
Solo che ogni tanto ho la necessità di ritirarmi e non è un rifiuto degli altri (non tutti quantomeno), piuttosto un bisogno di me, che non potrei certo definirmi parca di parole, tuttavia a volte è bello non sentirsi costretti ad alimentare la conversazione. Da che deriva la difficoltà della vita sociale? Dal fatto di dover trovare sempre qualcosa da dire … Ora mi è chiaro il carattere aggressivo di ogni conversazione. Con la scusa di interessarsi a voi, un interlocutore fracassa l’alone di silenzio, si pianta sulla riva del tempo e vi intima di rispondere alle sue domande. Ogni dialogo è una lotta.
Quando non si hanno sufficienti energia ed entusiasmo per lottare si può scegliere la compagnia di se stessi. Facile a dirsi. L’eremita deve rispondere a una domanda: è possibile sopportare se stessi? E non sempre la risposta è sì. Probabilmente perché di rado impieghiamo con profitto il poco tempo che dedichiamo a noi stessi.
Se ora vi chiedessi di fare un elenco di dieci o più cose che fate quando siete da soli, cosa mi rispondereste? Se mi diceste “ma dieci sono tantissime! Potrei elencarne al massimo tre o quattro”, vi pregherei di rifletterci meglio e, se proprio quella lista non si allunga, allora incalzerei con le domande: cosa pensate di voler fare in più rispetto a quanto già fate quando siete da soli? perché non lo fate? chi o cosa ve lo impedisce? cosa vi manca o cosa vi occorre per farlo?
Se aveste il coraggio di rispondere onestamente, lo scoprireste anche voi: stare da soli non è affatto male, ogni tanto.
Rainer Maria Rilke in una lettera del 17 febbraio 1903 indirizzata al poeta Franz Xaver Kappus scrisse: “Se la vostra vita di tutti i giorni vi sembra povera, non accusatela. Accusate voi stesso, che non siete abbastanza poeta da saperne estrarre le ricchezze”.
Il grigiore delle nostre esistenze dipende solo da noi. La nostra mediocrità incupisce il mondo. La vita vi appare scialba? Cambiate vita, andate in una capanna. Se in un bosco il mondo continua ad essere tetro e l’ambiente insopportabile, il verdetto è chiaro: siete voi che non vi sopportate. In tal caso, prendete provvedimenti.
Sylvain Tesson i provvedimenti li ha presi, anche piuttosto drastici, andando a vivere per sei mesi in una capanna immersa nelle foreste della Siberia, in quasi totale isolamento, procacciandosi cibo e legna da ardere, e annotando sul suo diario il quotidiano trascorrere delle giornate, incredibilmente diverse l’una dall’altra: avere poche cose da fare induce a considerare ogni cosa con attenzione.
Quando si organizza la propria vita intorno all’idea di non possedere niente, si dispone di tutto il necessario … Il tempo sottratto alle fatiche quotidiane è dedicato al riposo, alla contemplazione, ai piccoli piaceri. Il numero delle cose da fare è limitato. Leggere, attingere acqua, spaccare legna, scrivere e versare il tè si trasformano in liturgie. In città ogni gesto si compie a danno di mille altri … Io che saltavo alla gola di ogni secondo per cavarne fuori il massimo e spremerne tutto il succo, ora sto imparando la contemplazione … Sedersi alla finestra con una tazza di tè, lasciare le ore in infusione, dare al paesaggio la possibilità di declinare le sue sfumature, non pensare più a niente e all’improvviso cogliere al volo l’idea che passa e fissarla sul taccuino. Un modo per usare la finestra: invitare la bellezza a entrare e lasciar uscire l’ispirazione … La felicità diventa una cosa semplice: aspettare qualcosa sapendo che sta per accadere. Il tempo è il meraviglioso ordinatore di queste manifestazioni. In città vige il principio opposto: si pretende una continua efflorescenza di novità imprevedibili. Bisogna che i fuochi d’artificio dell’inatteso interrompano continuamente il corso delle ore e accendano la notte con i loro fugaci zampilli di luce. Nella capanna si vive al ritmo del metronomo e non a quello dei fuochi del Bengala.
Ora, considerate le mie pene di qualche giorno fa quando, in un rinnovato freddo invernale, per centoventi interminabili ore un guasto della caldaia mi ha privato dell’acqua calda, anche io ho raggiunto una certa consapevolezza: decisamente no, non sono fatta per vivere in una capanna in Siberia. Figurarsi andare a procacciarmi cibo e legna da ardere!
Eppure, anche solo dal terrazzino di casa, da cui ora scrivo, non rinuncio mai a momenti di meditazione e di estatica contemplazione della bellezza del mondo, interno ed esterno.
Essere felici significa sapere di esserlo.
– Post pubblicato sul blog di Accademia della Felicità il 31 maggio 2017