Taglio mare
racconto di Eloisa Ghilardotti
Da bambina amavo specchiarmi. Lo facevo di nascosto, perché mia madre, donna bellissima al naturale e a qualunque ora, lo riteneva un atto di vanità da non coltivare oltre il tempo necessario per lavarsi viso e denti.
Quand’ero piccola, nella mia città tutti i bambini si tagliavano i capelli da Gianburrasca; sembrava non esistessero altri parrucchieri per l’infanzia.
Il negozio non dava sulla strada: era un interno, in un palazzo moderno a due passi dal centro.
Il proprietario dell’epoca, il signor Michele, faceva solo due tagli, suoi distinguibilissimi marchi di fabbrica: il taglio alla paggetto e il taglio mare. Il primo consisteva in un taglio a scodella, il secondo in una rasatura quasi totale, che mia madre d’estate sceglieva inesorabilmente. Per comodità e per il caldo, diceva.
Le bambine che a scuola avevano i capelli lunghi erano per me oggetto di grandissima invidia e di curiosità, perché erano la prova inconfutabile che nella vita esisteva la possibilità di farsi crescere i capelli. Come facevano? Si ribellavano? Avevano più coraggio di me e quindi potevano tenersi i loro capelli?
Questo pensiero mi dava anche più fastidio della vista delle forbici del signor Michele.
Mia madre mi portava periodicamente a questo rito sacrificale della vanità, uscita dal quale sapevo che per almeno due mesi non sarei più riuscita a guardarmi allo specchio senza che mi venissero le lacrime agli occhi.
Persino Lady Oscar aveva i capelli lunghi.
La questione dello specchio non era l’unica conseguenza della rasatura: col taglio mare sapevo che per mesi mi sarebbe stato chiesto se ero un maschio o una femmina.
Succedeva sempre. Ogni volta mi affrettavo a etichettare l’ignaro alla voce “cretino”, così faceva meno male. La voce “cretino” era senza appello, ci mettevo tutti quelli che mi offendevano. Se ci finivi dentro, non risalivi più. Non a caso, i miei genitori dicevano che avevo un orgoglio luciferino. Cominciarono a dirlo da quando, pur di non chiedere scusa, una volta non mangiai per due giorni. Vinsi il braccio di ferro, ma mi guadagnai il titolo di orgogliosa, che mi sarebbe rimasto a lungo.
“Sei un maschio o una femmina?” mi chiedeva l’ennesimo adulto poco acuto. Mia madre un po’ inquieta chinava lo sguardo su di me, invitandomi a svelare l’arcano, e io rispondevo a bassa voce: “Una femmina”. Sussurravo, per cercare di nascondere il fastidio.
Odiavo il taglio mare. Anche mia nonna lo odiava, ma non osava mettersi fra mia madre e le sue idee sulla lunghezza dei miei capelli.
“Ha dei riccioli così belli, perché tagliarli?”, diceva in tono mesto, scuotendo la testa.
Facevo del mio meglio per non pensarci. In città ci riuscivo, ma d’estate non potevo proprio dimenticarmene, perché d’estate succedevano cose speciali.
A luglio andavamo in vacanza in albergo a Ortisei. Per me e per i miei fratelli era il periodo più bello dell’anno. Eravamo bambini cittadini: non ci era permesso giocare in strada, perché era trafficatissima, e non c’erano giardinetti nelle vicinanze di casa nostra.
A Ortisei eravamo liberi, potevamo stare all’aperto a giocare per interi pomeriggi e correre fino allo sfinimento.
A Ortisei, io mi innamoravo. Tutti gli anni, dall’età di cinque anni fino all’adolescenza, m’innamoravo dello stesso bambino, che veniva sempre lì in vacanza con la sua famiglia.
Si chiamava Riccardo ed era bellissimo.
Il momento clou della vacanza era all’arrivo, perché ci si salutava con un bacio sulla guancia. Aspettavo quel momento per mesi: potevo baciarlo, senza rivelare nulla.
Anche mia sorella si innamorava di lui ogni anno, così come tutte le bambine ospiti dell’albergo.
Per come la vedevo, avevano tutte più chance di me: io non avevo più i capelli, io avevo il taglio mare.
A peggiorare le cose c’erano i vestiti: durante il giorno il mio abbigliamento era identico a quello di mio fratello e consisteva in una maglietta e dei pantaloncini comodi per giocare.
A Ortisei la sera le cose miglioravano: ci si cambiava per la cena e mia nonna, che veniva in montagna con noi, mi metteva una gonna o un vestito carino. Diceva: “Ecco fatto, così mi piaci. Guarda come stai bene”.
Obbedivo e mi giravo verso lo specchio, sperando di riuscire a vedermi senza testa, ma la testa era sempre lì, con un solo centimetro di capelli attaccato.
Allora guardavo lei e mi specchiavo nei suoi occhi, cercando conferme.
A mia nonna piacevo, il suo sguardo mi confortava. Mi capiva senza tante parole.
Scendevo le scale per andare in sala da pranzo, piena di aspettative tutte le sere, ma a cena non succedeva nulla.
Riccardo era sempre gentile con me, ma, nonostante i vestiti carini, sembrava comunque considerarmi un maschio.
Davo la colpa ai capelli e ogni sera, per qualche minuto, ero infelice.
Non durava tanto, perché a Ortisei ero libera.
Agli inizi della seconda media avviai negoziati con mia madre per prendere il controllo della lunghezza dei miei capelli. Non dissi che anche Lady Oscar aveva i capelli lunghi, perché pensavo che per lei non sarebbe stata una buona argomentazione, ma ebbi successo.
Arrivai a Ortisei l’estate di quell’anno con i capelli lunghi quasi fino alle spalle. Addosso avevo una gonna di jeans, una maglietta arancione che mi piaceva moltissimo e l’aria più spavalda di cui ero capace.
Entrammo nella sala da pranzo dell’albergo e andammo subito a salutare Riccardo e la sua famiglia. Non ci furono baci sulla guancia, ma successe qualcosa, che forse sarebbe successo comunque perché stavamo crescendo.
Lui tirò sua madre per la manica e disse: “Mamma, hai visto l’Eloisa? Mamma, ma l’hai vista?”.