Questione di focus

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Prima di accingermi a scrivere questo post ho voluto cercare il significato del termine focus che mi capita a volte di usare, più per imitazione che per cognizione.
E, in effetti, il mio dubbio non era del tutto infondato: nei dizionari italiani il termine non è mai definito nell’accezione da me usata, che scopro essere presa in prestito dall’inglese.
Allora, scanso equivoci e per rispetto dei puristi della lingua italiana, vorrei sottolineare che nel discorso seguente focus sta per “oggetto dell’interesse”.
Finita la parentesi linguistica entro nel merito della mia riflessione e vi propongo tre scene.


 

PRIMA SCENA
Sto raccontando qualcosa a un amico e lui, come ogni santissima volta, mi interrompe di continuo anticipando puntualmente il proseguo delle mie frasi: di rado indovina ciò che sto per dire, per cui devo ricominciare daccapo dopo avergli dimostrato che il suo “presagio” è sbagliato. Il mio racconto, dunque, dura almeno il doppio se non il triplo del tempo necessario ma soprattutto il momento della confidenza si trasforma in una “lotta” tra me, che nel frattempo perdo la voglia di parlare, e lui che ha la smania di leggermi nel pensiero.

SECONDA SCENA
Mi telefona un’amica per congratularsi con me di una buona notizia ricevuta giorni fa e di cui l’ho avvisata prontamente con un messaggio. Apprezzo il suo trasporto emotivo e sento che è sincera, e sento pure che nel suo tono così entusiasta c’è qualcos’altro. Di fatto, dopo qualche secondo, mi dà una meravigliosa notizia che la riguarda… e di colpo sparisco del tutto io con le mie emozioni, se non in veste di persona che può darle informazioni e possa ascoltarla e comprendere la sua eccitazione. Scendo, dunque, senza esitazioni dal palco e mi metto tra il pubblico in prima fila, senza ulteriori commenti e partecipo come riesco.
 

TERZA SCENA
In via del tutto eccezionale mi arrogo il diritto di confidarmi con un amico su una discussione avuta con un’altra amica: so che l’accaduto non è niente di grave né avrà ripercussioni future, tuttavia ho proprio bisogno di sfogarmi e di comunicare la mia arrabbiatura, anche con un pizzico di vittimismo che non mi è connaturato, ma che evidentemente ha proprio bisogno di essere esternato ed esorcizzato. Ad un certo punto il mio confidente fa un commento aggiungendo un particolare estraneo alla mia narrazione degli eventi e penso di aver capito male. Chiedo conferma e lui ribadisce il concetto.
Io: “Non sto capendo l’attinenza, perdonami”.
Lui: ” Sto parlando di me ”.
“Ah, ecco, hai cambiato discorso”.
“No, il discorso è lo stesso”.
“Il tema è lo stesso, ma il discorso è diverso!”
“A me non pare, stiamo parlando della stessa cosa”.
“Non direi. Prima si stava parlando di me. Ora stiamo parlando di te”.


 
Cosa hanno in comune questi tre aneddoti?
Tante cose: si tratta di amici cari, a cui sono legata da affetto reciproco, sono tutti e tre persone sensibili con cui sto avendo un dialogo, sono in quel momento con me e nessuno di loro è distratto da altre incombenze.
Eppure, tutti e tre hanno la stessa reazione:
hanno spostato l’oggetto dell’interesse, il focus, da me a loro, interrompendo, seppure senza intenzione, il flusso dei miei pensieri e delle mie emozioni, negando loro attenzione e importanza.
 
Dovrò farci caso anche io a non commettere lo stesso errore.
L’ascolto è un’altra cosa.

 

 

 

 

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