Bookcoaching: “La donna gelata” di Annie Ernaux e “Lezioni di chimica” di Bonnie Garmus

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“La donna gelata” di Annie Ernaux e “Lezioni di chimica” (Bonnie Garmus)

 

 Mesi fa in un incontro del gruppo di lettura di cui faccio parte abbiamo discusso sul libro La donna gelata di Annie Ernaux, che ha suscitato un dibattito molto acceso, con opinioni non sempre concordanti.
 Senza entrare nel dettaglio della storia, il tema è la denuncia sociale della differenza tra uomini e donne, e il sentimento comune della serata era che, sebbene siano passati decenni dai fatti narrati, alcune cose non sono cambiate di molto: parzialmente modificate sì, ma parlare di vera e propria emancipazione femminile ancora non si può.
 C’era chi chiedeva con preoccupazione “cosa si può fare per migliorare ancora?”, chi era furibonda, chi rassegnata, chi fiduciosa nelle nuove generazioni, chi dava totale responsabilità agli uomini, chi no.
 Il bello del dialogo, civile e rispettoso.
 Qui scrivo la mia lettura del tutto personale, suscitata da alcune frasi che mi sono restate impresse.
 Pur sapendo che per scrivere l’autrice attinge dalla sua esperienza personale, tanto che la protagonista della storia coincide con la scrittrice, io ho voluto soffermarmi sulle sensazioni scaturite di fatti e emozioni espresse limitatamente a quanto narrato nel libro; volutamente ho cercato di non guardare oltre e verso quelle poche notizie biografiche che conosco.
 Quindi le mie considerazioni si basano su quanto mi ha suscitato il personaggio Annie, non la persona.
 Mentre leggevo avevo la sensazione che Annie, ancora prima di diventare una “donna gelata”, fosse una persona ancora acerba, in cerca della propria identità all’esterno da sé, che avesse poca coscienza di sé e non riuscisse ad avere una propria visione della vita, impedendole di prendere decisioni e scelte in autonomia.
«Galleggio», una delle parole che usavamo tra ragazze per descrivere lo strano torpore di certe giornate in cui ci si sente inconsistenti, irreali … Smettere di galleggiare, avere presa sul mondo: mi capitava di pensare che con un uomo al mio fianco tutte le mie azioni, anche le più insignificanti, caricare la sveglia, preparare la colazione, avrebbero acquisito sostanza e sapore.
 Ho percepito una profonda solitudine e mancanza di amicizie intime con le quali confrontarsi.
 Ho intravisto un atteggiamento rinunciatario e una volontà di aderire alle convenzioni sociali molto frettolosa, un volersi riconoscere all’esterno di sé, aderire a uno status comune in cui non si immedesima, ma si adegua perché non trova altro spazio in cui realizzarsi e identificarsi:
Mi convinco che sposandomi mi libererò di quell’inutile parte di me che continua a girare in tondo, a perdersi tra mille domande, una me inutile. Che raggiungerò l’equilibrio… Matrimonio, «realizzazione» … Ciò che ho appena vissuto somiglia a tutte quelle cose né volute né rifiutate che traggono da quel loro stato una romantica dolcezza. Uno di quei giorni il cui senso, lo sapevo, mi si sarebbe chiarito soltanto in seguito.
 Come se Annie si fosse fatta vivere da agenti esterni, più che vivere grazie a scelte consce e la consapevolezza fosse giunta solo nell’età della maturità, proprio mentre racconta.
sono cascata nella trappola della donna completa, in fin dei conti orgogliosa di riuscire a conciliare tutto, barcamenarsi tra la cucina, un figlio e tre classi di francese, custode del focolare e dispensatrice di sapere, super!, non soltanto un’intellettuale, una donna a tutto tondo, insomma, armoniosa.
 Ciò che mi ha colpito è che si fosse fatta catturare da influenze esterne non solo a lei (cosa certo comune, dato che nessuno di noi può dirsi totalmente immune dalle influenze degli altri, salvo eccezioni patologiche), ma anche lontane dall’educazione e dai modelli ricevuti in famiglia, composta da donne indipendenti e non affini al ruolo che la “società” imponeva loro, esattamente come il padre non incarnava il modello di capofamiglia dell’epoca.
 Costantemente mi si balenava una domanda: ma quando inizierà Annie ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte?
 Lo ammette lei stessa: non parto più per andare alla scoperta, ma per fuggire.
 Ecco.
 Negli anni Cinquanta del secolo scorso lo psicologo statunitense Julian B. Rotter ideò la teoria del locus of control, che rappresenta la modalità con cui una persona reputa che gli accadimenti della sua vita siano il risultato dei propri comportamenti oppure di cause esterne indipendenti dalla propria volontà.
Avere un locus of control interno significa riconoscere un proprio ruolo agente negli eventi che accadono, anche quando negativi: una mia azione, dettata da una mia scelta anche non intenzionale, ha portato con sé delle conseguenze di cui devo farmi carico.
 Devo sentirmi in colpa? Non necessariamente, ma riconoscere una propria responsabilità in quello che accade ha almeno due effetti positivi:
  1. consapevole del mio ruolo in quello che mi accade, divento più forte, imparo dall’esperienza e acquisisco gli strumenti che mi consentono di saper bene intervenire la volta successiva in cui mi troverò in una situazione simile;
  2. se scopro di avere un potere agente in quello che accade, ho anche il potere di cambiare rotta e trasformare una situazione negativa in positiva, ho un potere costruttivo in cui io non sono più solo la vittima di casi fortuiti (che pur esistono, sia chiaro) ma posso dare il mio contributo nell’esplicarsi del mio progetto di vita.
 E ditemi se è poco…
 Sempre nello stesso gruppo di lettura il mese dopo ci siamo invece confrontati su Lezioni di chimica di Bonnie Garmus: la protagonista, Elizabeth, vive più o meno nello stesso periodo storico di Annie della storia precedente, ed è donna di tutt’altra pasta.
Scienziata in un periodo in cui la scienza, e tutti i ruoli accademici e di forte impatto nel mondo, erano appannaggio quasi esclusivamente degli uomini, poco inclini a lasciare il trono in favore di una donna (non che oggi la situazione sia poi tanto migliorata, passi in avanti sono stati fatti, ma la strada è ancora lunga…); madre per caso, single e sui generis; passato non facile, non rinnega mai sé stessa davanti alle avversità e insiste sulla sua strada per affermarsi, senza scadere in sterili vittimismi.
 L’esatto contrario di Annie, Elizabeth non solo si assume le proprie responsabilità in eventi accaduti, per scelta o meno sua, ma va anche oltre, imputandosi addirittura colpe che non sono assolutamente sue.
 Di tutto il romanzo, ho voluto annotare un passaggio in particolare che ripropongo:
 “… sono d’accordo sul fatto che la società in generale lasci molto a desiderare, ma quando arriviamo a parlare di religione penso che si debba restare umili perché ci insegna qual è il nostro posto nel mondo”.
“Davvero?” aveva esclamato Elizabeth, sorpresa. “Io invece penso che ci tolga dai guai e basta. Ci insegna che niente è davvero colpa nostra che a tirare i fili di tutto è sempre qualcun altro, che in ultima analisi non siamo responsabili di come vanno le cose e che per migliorare la situazione basti pregare. Ma la verità è che siamo responsabili di tutto quanto non va nel mondo, e che abbiamo il potere di raddrizzare la rotta” .
 Qui non è di credo religioso che voglio parlare ma di come l’additare sempre all’esterno di noi le cause di quel che ci accade è un negare la realtà, dissociarsi dalla propria vita, rifuggendo ogni responsabilità.
 Ancora, non sto giudicando i personaggi, ma analizzando gli atteggiamenti diversi, sapendo che spesso possiamo decidere come reagire agli eventi della vita: noi non siamo fatti così (come spesso ci giustifichiamo) ma possiamo anche diventare altro.
 Potrebbe anche non essere colpa nostra, a volte, ma responsabilità nostra sempre!

 

 

 

 

 

 

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